PASSAGGIO DI CONFINE
Pareti leggere tese, nate nella luce piena, ove un bianco è integralmente
bianco e un nero è sempre nero pieno, come un nodo saldo, ma che nel suo intreccio lascia supporre future precarietà.
Superfici ove il bianco talvolta si abbruna soffocando i propri bagliori, o il nero trapassa in uno dei più vivi colori del suo spettro; note più alte, tutte, della luminosità o inattese monocromie che sottendono la luce e la espandono.
L’opera è una trama costruita con il filo di ferro – di cui enuncia la saldezza – ricoperto dal filo di refe, così che il carattere dell’uno diventa l’anima della sottile corposità dell’altro, da questo acquistando una morbidezza inusuale.
La rete, che la trama compone, ha una maglia molto semplice associata ad un gamma di complessità funzionali agli andamenti percettivi voluti; e in essa il percorso del segno assume ritmi costanti in una visibile pulsione ondulatoria, come se il segno appunto andasse assecondando il respiro profondo della materia venendo rigenerato da quello. Credo che il primo segnale che l’opera emetta sia proprio connaturato al suo farsi: un ritmo, nel percorso costante della proliferazione di un motivo, fatto di intrecci e segmenti che improvvisamente si liberano da ogni congiunzione per disporsi a quella fissità che pertiene all’ozio contemplativo quanto alle sue sbalorditive sorprese.
Il tema – ma anche il senso più profondo – del lavoro recente di Franca Sonnino è qui: privilegiare la visione, lasciare ad essa tutta l’ampiezza di cui sia emozionalmente capace, per offrire all’osservatore uno schermo preciso sul quale lo sguardo abbia agio di acquisire e di gestire la vastità dell’esperienza che vi rimbalza.
Opera nata – come l’artista stessa dichiara – dalla contemplazione di alcuni punti sospesi nello spazio del mondo osservato, prescelto. “Ho guardato i mosaici di Villa Adriana, ho sostato su certe acqueforti di Strazza, ove – in entrambi i casi – i riverberi della luce e dell’ombra erano estremi. Credo che l’origine di questa mia ricerca risieda lì” (nella visione dunque, nei poteri evocativi di alcuni linguaggi all’interno della visione).
Il lavoro è una radicalizzazione di elementi strutturali supportanti frammenti di mondo espressivi. Una sottile corda tesa sulla quale – in sezione – vibrano sonorità intime prive di incertezza, e la crescita di una forma che varia assecondando esigenze spontanee profonde (Klee)
Lo sviluppo dello spazio, che corrisponde al luogo della crescita di una vibrante temporalità, costituisce costanti scansioni del senso.
Chi decide quando questo si compie? Il disegno si completa nel silenzio di una progettualità inesplorata ove agiscono impulsi uniformi tesi ad uno scandaglio azzardato. La parete che il lavoro erige nel tempo prevede, nella crescita, anche il proprio orizzonte d’ombra.
L’ombra entra nella nostra visione: è l’opera? Lascia un varco ad alterne possibilità. Certamente è l’ombra a superare il confine nel momento in cui il sottile tracciato sul muro oltrepassa quest’ultimo incrinando la certezza della sua identità.
Così un lavoro nata dalla constatazione dello spazio, nella accorta valutazione delle sue suggestioni, perviene alla messa in crisi dello stesso a vantaggio della dominante del tempo nella sua estesa durata, comprensiva della luce del giorno e del buio della notte.
In questa dimensione soltanto il sogno – oppure l’arte – ha la facoltà di superare ogni limite a salvaguardia di una promessa di libertà racchiusa entro le risorse di senso di aeree figure geometriche.
Federica Di Castro
(presentazione della mostra: Franca Sonnino “Passaggio di confine”, Galleria Cinque-cinquantacinque, Roma, 1994)