PAESAGGI IN PARETE
di Franca Sonnino
Questa mostra di Franca Sonnino (in una galleria d’assalto a Bari da me amata per la schiettezza degli organizzatori e per il loro talento) è un “pezzo” e una svolta della sua quasi ventennale attività, tra segno e filo, nell’area dell’ “arte povera” vissuta e condotta con grande originalità e autonomia, tanto che le sue biblioteche di filiformi reperti a far crisalidi di un vanificato sapere dopo incendi, i suoi leggii – che ebbero una sala al “Michetti” e uno spazio notevole nella mostra al Palazzo dei Diamanti nel 1983 – a fare orchestra di silenzio, esprimono una situazione esistenziale molto meno legata al riciclaggio del prodotto consumato e molto più a quei trepidi incontri della mente segnificante, sua precipua caratteristica e qualità.
Franca Sonnino ha sempre disegnato frapponendo il filo, sovente con un’anima di metallo, al segno puro, anche quando questo segno è restato sulla carta o sulla tela, spostando da una ideologia metafisica o di geometrie rigoristiche o di associazioni soltanto mentali, gestalt, la sua immagine in una manualità e in una merceologia di “oggetto” non più trovato ma “inventato”.
Perfino la sua recente, aristocratica mostra in casa, dei fantasmi (anime di veli di reti, inalberate a perpendicolo dal soffitto al pavimento, come grandissime foglie di esistenze, di ombre teatranti la incomunicabilità) sembra raccontare per una via impropria lo stupore del vivere o dell’essere vissuti.
Il tutto è diafano con una particolare, femminina, direi quasi vendicativa consistenza. Sono pensieri della fine, di tenerezza, di primavere future o trascorse, in forme rampanti, azzeccate come le sue grandi ragnatele negli angoli di stanze, sempre più consistenti, più “di peso” che linee di inchiostro, di pennello, e sempre vertebrate da una tridimensionalità: perché la Sonnino col suo filo che racconta può anche essere considerata una scultrice che ha l’aria, il vuoto, come materia da adoperare, da circoscrivere, da catturare, da esaltare col suo trepido fil di ferro annerito di cotone o di refi.
Nella mostra l’artista romana ha portato due sintesi in effige dei suoi magnifici comportamenti fissi di ieri, la libreria e l’orchestra, perché il pubblico barese possa legar meglio il discorso dei paesaggi in parete, ultima fase della sua crepitante fantasia. Non starò a dilungarmi in quelle opere, hanno già avuto tutto il loro tempo di sedimentazione e, in modo particolare, l’occasione di toccar fondo come messaggi, più spesso, di consumazione e di distruzione, di riduzione a scheletri bruciati di altre forme e presenze. Oggi la Sonnino pur restando fedele al suo mezzo, che è ormai come il legno per Ceroli e Tilson o il ciarpame metallico per Tinguelly, si è spinta a interpretare il paesaggio, a farlo rinascere dalle macerie e dalle ceneri delle sue passate ustioni e consumazioni. Il passo, quanto a mezzi adoperati, è minimo, ma di notevole percettibilità quanto a “contenuti”. Già alla Rotonda della Besana di Milano in una memorabile mostra al femminile, l’artista aveva presentato un’opera che scommetteva cogli Impressionisti la sua capacità di fare i riflessi sull’acqua, quelli e non altri e ciò riusciva a compiere come per magia, di metalli o di fili diversi; altre volte aveva fatto di sciarpe colorate e messe in bacheca, splendide spiagge, che furono esposte nella mostra alla Galleria Lastaria di cui erano illuminati registi, Passa e Menna.
Ma questi laghi e colline, campi arati, nodi di vie culture, canali, sono emblemi e racconti, segni di rustica grazia rampanti nel bianco delle pareti, invenzioni nuove davvero, non soltanto per i precedenti della pittrice, ma mi par proprio di poter dire che sono nuovi rispetto a tante cose anche valenti che si vedono in giro. La semplicità e, quasi, la povertà delle singole visioni, sovente aprospettiche, non inganni sul quanto di fantasia, sul gioco innamorato di questa filatrice manual epifanica.
In questa fase recente dell’arte della Sonnino mi pare di ritrovare una fiducia nell’emozione sensibile, nella “veduta” senza che, per questo, siano vanificati quei mezzi che anche prima adoperava per fare qualcosa di sostanzialmente diverso, quanto a messaggio. Qui le colline e i canali, gli appezzamenti coltivati, ciascuno con una densità diversa di accostamento dei fili a dare una diversità di colore ai riquadri, richiama addirittura il variar del segno a china o in xilografia degli espressionisti storici, una nobiltà classica, al gesto (minuto) del comporre (largo), una sintesi che fa di tanti particolari una specie di monile, di corona, di gioiello. Sono palpitanti abbracci di segni-fili al bianco dei muri, che, non appena diramati e fermati, sembra siano sempre esistiti in loco, nati nell’ambiente come totem della natura.
Marcello Venturoli
(presentazione della mostra: Franca Sonnino, La Cooperativa Esperienze Culturali, Bari, 1988