LA MISURA AMBIENTALE DI FRANCA SONNINO
Le misure sono fondamentali nel nostro lavoro. Un lavoro di natura semiologica, ossia un lavoro in cui tutto assume valore di “segno”: la materia, il colore, il formato, la dimensione. Vi sono artisti e artiste che non hanno capito la propria misura; hanno tradito opere per loro natura grandi, rendendole maneggevoli; o viceversa, hanno diluito la magia di opere che richiedevano, per il loro intrinseco carattere, una misura intima; e così le hanno rese incomprensibili.
Franca Sonnino è un’artista che sente lo spazio, e pur usando un medium minuto come il filo, “fa largo”. Questa artista riscatta la domesticità del filo nell’ampiezza del contesto in cui lo inserisce; ha fatto mattoni di filo, e muri di questi mattoni, quasi a sfida di un’assenza millenaria della donna – la tessitrice – dalla costruzione della casa, che fu la sua prigione e il suo regno.
Le prime opere tessili pseudopittoriche di Franca Sonnino furono subito grandi; ricordo che usava ferri da calza grossi come bastoni; assolutamente comici a vederli, eppure appropriatissimi per quel filo sottile che circondava, come un segno grafico, delle smagliature simili a veri e propri dripping d’aria.
Le prime pagine che costruì erano alti pannelli tessili appoggiati a terra, collocati in una successione che mescolava i colori nella trasparenza. Qualcosa come un divisionismo spaziale, ottenuto col filo.
Portavano nell’aria i colori del mare, al quale era dedicato il lavoro. Come Franca ha capito, il mare ha una natura tessile, per le correnti che lo attraversano da sotto, e i venti che lo muovono dall’alto.
Quando si è dedicata al libro tessile vero e proprio, ossia formato da pagine insieme legate, lo ha fatto grande, un invito leggero ma imperioso al gesto circolare del braccio che, tutto intero, sfoglia. E poi cessando di dilatare il libro ne ha dilatato il contesto, moltiplicando libri di misura normale. Erano librerie senza scaffali. Scheletri di libri chiusi, svuotati, grafie oggettuali, meri profili di filo nero allineati, appesi al muro come quadri. Ed era questa già un libro-installazione; ciò avveniva nell’83, quando non esisteva alcuna teorizzazione su questo tipo di espressioni e, soprattutto, non esistevano modelli.
Insomma Franca Sonnino ha da sempre capito la propria dimensione e le è rimasta fedele. Ha invaso lo spazio ambientale anche con i suoi leggii di filo senza spartiti: un’intera orchestra disertata, con quel gioco di triangoli che era vera e propria musica visiva.
Intanto i suoi libri alla parete si sono sbiancati: in questa fase somigliavano a librerie di ossa, e la traccia della loro esile presenza veniva disegnata dall’ombra. Poi sono “caduti” al suolo. Hanno assunto il colore della terra e del fango, e le macchie dolorose (captanti, suggestivamente pittoriche) dell’alluvione. È questa la più recente libro-installazione di Franca Sonnino, e la più intensa; occupa un intero ambiente, in un certo senso impedisce il passaggio, obbligando alla sosta, alla riflessione. Qui più che mai la misura del contesto spaziale appare determinante.
Morbidi al tatto, sfogliabili, non più vuoti, gonfi, ripiegati sotto l’onda immaginaria di una catastrofe ecologica, questi reperti ci dicono qualcosa di molto attuale. Possiamo leggervi recenti esperienze pubbliche di profanazione del privato; anche perché non hanno più pareti a cui aggrapparsi. Possiamo sentirvi la cultura calpestata, o il richiamo della terra, per una macerazione fertilizzante; forse l’auspicio di un ritorno, in forma diversa, della comunicazione tra esseri umani. Ma certo denotano una fine; sia pure in modo tenero, sommesso. Forse la fine di una strumentazione intima della comunicazione. La fine del libro, travolto dalla tecnologia.
Mirella Bentivoglio
(presentazione della mostra: La forma del vuoto di Franca Sonnino, Complesso del Vittoriano, Roma, 2005)